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Editoriale - Maggio 31, 2022

On The Ground: Naomi Accardi

On the ground: storie di persone, streetwear e città. In questo episodio scopriamo la realtà di Naomi Accardi

On the ground: storie di persone, streetwear e città. In questo episodio scopriamo la realtà di Naomi Accardi

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Questa è una serie di storie di individui che raccontano sé stessi, le loro passioni e il loro lavoro. Persone unite da un punto di vista chiaro e determinante verso il cambiamento dei trends all’interno delle principali città italiane, quelle in cui sono nati, in cui vivono o in cui hanno vissuto. Ognuno di loro fa parte di un mondo diverso, molti sono legati all’urban culture, altri alla moda, all’arte o al design. Analizzeremo i loro traguardi personali e soprattutto quali sono stati i cambiamenti chiave nello streetwear e nella moda rispetto alla loro visione ed alla loro città. Dopo essere passata a Roma, mi sono spostata a Milano dove ho incontrato Naomi Accardi, che ci ha parlato del suo lavoro e della sua storia.

Chi sei? Cosa fai? Raccontaci di te…

Mi chiamo Naomi, classe 1991, nata in un piccolo paese dell’Emilia Romagna, sono per metà modenese e metà siciliana. Nella vita faccio tante cose, ma posso riassumere dicendo che sono una consulente creativa ed editor. Mi occupo principalmente di temi legati al calcio, alla moda e al sociale. Attualmente collaboro con vari magazine tra cui SEASON zine che è un magazine di calcio femminile e moda con sede a Londra di cui sono editor at large e sono anche il marketing director di Sunnei.

Da dove sei partita? Come sei arrivata a fare quello che fai?

Ho studiato Visual Communication a Los Angeles al “Fashion Institute of Design and Merchandising”, non tra le scuole migliori che avessi potuto scegliere, ma l’esperienza generale è stata molto bella. Dopo la laurea sono tornata in Italia e per un breve periodo sono stata a Milano, ho fatto application da Carhartt WIP per il ruolo di PR Coordinator, mi hanno assunta e mi sono trasferita in un piccolo paese tedesco in cui si trovava il loro HQ. Posto veramente tragico. Subito dopo, l’allora direttore creativo di Carhartt Arnaud Faeh, insieme a Luke Meier, decisero di creare un nuovo brand che poi è diventato OAMC chiedendomi di lavorare per loro a Milano, nel loro nuovo ufficio. Dopo circa un anno ho lasciato quel ruolo e sono diventata una freelancer, è stato un periodo in cui ho fatto di tutto, dalla producer, alla consulente. Ho avuto fortuna e subito dopo sono andata a lavorare per Nike come NRG Brand Marketing Manager per Nike Lab. Sono rimasta per quattro mesi per poi andare da adidas a Dubai dove ho lavorato per due anni come Brand Activation Manager e Influencer Marketing Manager, mi occupavo dei mercati emergenti (Medio Oriente, Nord Africa, Sud Africa, Turchia, Israele e India). Alla fine sono tornata a Milano e sono rimasta a lavorare come freelancer.

In parallelo nel 2014/2015 avevo iniziato a collaborare con magazine di calcio, il primo dei quali è stato Mundial Magazine. Mio padre era un calciatore e mi piace raccontare storie legate a ciò che sta fuori dal campo, sono una tifosa, mi piace il calcio, ma mi piace ancora di più raccontare la cultura che lo circonda.

Hai vissuto per molti anni in giro per l’Italia e per il mondo, in che modo la tua visione multiculturale influisce sui progetti ai quali lavori?

Influisce moltissimo. Ho avuto la fortuna di viaggiare tanto per via del lavoro di mio padre e quando avevo quattro anni ha deciso di andare a giocare a calcio in Indonesia, ci siamo trasferiti tutti lì ed è da qui che è iniziato il mio percorso multiculturale. Eravamo gli unici italiani, circondati da sud africani, sud americani, indonesiani. Mio padre è sempre stata una persona molto aperta ed estroversa, casa nostra era luogo di feste e incontri, quindi sono sempre stata a contatto con tantissime persone di diverse culture. Questo mio background si infiltra nel mio lavoro, soprattutto quando parlo di calcio, mi concentro molto sul tema dell’integrazione e come questo sport sia uno strumento che facilità questo tipo di dinamica. Dal punto di vista moda, mi piace tantissimo scoprire in che modo gli abiti vengono utilizzati e trattati in Paesi diversi dal nostro, quindi scoprirli più in senso culturale.

Sei molto legata al mondo del calcio, in particolare al calcio femminile e non solo per lavoro. Come nasce questa passione e come vedi il futuro del calcio femminile?

Come ho già detto, sono nata e cresciuta in una famiglia calcistica, anche se non mi sono mai interessata al calcio fino a 10 anni fa, circa. Sono cresciuta giocando a basket ed ero super fan e non volevo sentire parlare di altro, forse era un po’ un rigetto al fatto che il calcio fosse sempre stato parte della mia vita. Essendo sensibile ai temi sociali, culturali, di integrazione, ho iniziato a capire che era lo strumento più forte che c’è per collegare tanti mondi diversi. Il calcio femminile è arrivato dopo – 5 anni fa – tramite SEASON zine, che avevo appena scoperto. Scrivendo già su Mundial Magazine di calcio e moda, non potevo credere al fatto che potessi parlare degli stessi temi con una community e su un magazine al femminile. Ho scritto una mail alla Founder per congratularmi del progetto, mi ha intervistata come figlia di ex calciatore per poi chiedermi di collaborare. Purtroppo credo che le attività di amplificazione legate al calcio femminile siano ancora spesso troppo delle marchette. È una parte dello sport con poche piattaforme e poca risonanza, la speranza è che ci sia un movimento che nasca dalle persone, più che dai club, federazioni e le aziende. Io stessa, essendo cresciuta respirando questo ambiente, non ero a conoscenza del fatto che ci fossero delle squadre femminili professionistiche. Il basket da questo punto di vista è molto più inclusivo anche a livello internazionale.

Qual è e come potresti descrivere il rapporto tra moda e calcio?

La relazione tra calcio e moda nasce dal dopoguerra, quando i calciatori iniziano ad essere delle icone di stile e la moda inizia a guardare allo sportswear. Negli ultimi anni questo rapporto ha iniziato a consolidarsi sempre più, un po’ per la deformalizzazione generale della moda che va sempre più verso una direzione casual, la sdrammatizzazione, indossare una tuta per uscire e non per andare in palestra; un po’ perché sia i brand che i club stanno iniziando a capire il potere mediatico che la squadra e i calciatori possono avere. adidas ad esempio è un grande catalizzatore tra calcio e moda e dà la possibilità a tantissimi designer di sfogliare tra i loro archivi e tirar fuori tutto il materiale calcistico che ha sviluppato negli anni. Da circa 50 anni la moda prende in prestito dei linguaggi tipici del calcio, scarpe, magliette, calzini, che prima erano elementi propri dei tifosi e dei fan, ora in fashion week vedi gente indossare magliette, tute dei club, che non siano per forza quelle dei club per cui simpatizzano, ma è un vero e proprio statement di moda. Sarà un fenomeno che aumenterà sempre di più comprese le collaborazioni tra club e brand: Inter e Moncler, PSG con Dior e Jordan, Juventus e Palace, Yohji Yamamoto inserisce elementi calcistici dal 2006, Margiela che fa top con sciarpe da calcio. Bikkembergs acquisì il Fossombrone Calcio utilizzando la squadra anche per le campagne e per mostrare le collezioni.

Quali sono secondo te i trend che hanno contraddistinto Milano e che hanno condizionato l’andamento della moda in questi anni?

Un elemento che ha fatto rimettere il riflettori su Milano è stato Off-White e il New Guards Group, il loro modello di business ha dato una spinta energetica alla città che prima di questa operazione era un po’ morta. Il rebranding di Gucci con Alessandro Michele ha dato l’input a tanti altri brand di fare la stessa cosa – come ad esempio Bottega – che prima erano destinati ad un target differente e “vecchio”. Da un lato c’è Off-White e tutto quel circolo di High End streetwear che poi è nato, come Heron Preston e Palm Angels, dall’altro ci sono le Maison di lusso, con anni di storia alle spalle, che hanno voluto avvicinarsi al mondo giovanile svecchiandosi e cercano nuovi linguaggi. Come negli anni 2000 la logomania e i monogram sono tornati prepotentemente. Tra i brand giovani da tenere d’occhio c’è Sunnei, che è riuscito a trovare una propria nicchia che va contro al resto della moda e dei trend che c’è qua a Milano.