Sneakers - Marzo 31, 2022

On The Ground: Alessandra De Luca

On the ground: storie di persone, streetwear e città. In questo episodio scopriamo la realtà di Alessandra De Luca

On the ground: storie di persone, streetwear e città. In questo episodio scopriamo la realtà di Alessandra De Luca

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Questa è una serie di storie di individui che raccontano sé stessi, le loro passioni e il loro lavoro. Persone unite da un punto di vista chiaro e determinante verso il cambiamento dei trends all’interno delle principali città italiane, quelle in cui sono nati, in cui vivono o in cui hanno vissuto. Ognuno di loro fa parte di un mondo diverso, molti sono legati all’urban culture, altri alla moda, all’arte o al design. Analizzeremo i loro traguardi personali e soprattutto quali sono stati i cambiamenti chiave nello streetwear e nella moda rispetto alla loro visione ed alla loro città. La prima città in cui sono stata è Roma, dove ho incontrato Alessandra De Luca che ci ha parlato del suo lavoro, ma soprattutto delle sue passioni. In @visioniscomposte raccoglie le analogiche che scatta, la fotografia è il suo linguaggio.

Chi sei? Cosa fai? Raccontaci di te…

Mi chiamo Alessandra ho 36 anni e sono nata a Napoli per poi trasferirmi qui a Roma dodici anni fa. Lavoro in un’accademia di arti performative dove si studiano danza, arti sceniche, musica, ci sono anche due studi di registrazione e da quest’anno è anche Liceo Coreutico, quindi una scuola vera e propria. Sono una figura ibrida e mi prendo cura delle persone, diciamo che il mio lavoro è quello della problem solver, mi assicuro che tutto vada come deve andare, faccio tante cose e ciò che mi piace è che non c’è mai un giorno uguale all’altro, non c’è una routine. Accogliamo ragazzi da tutta Europa che arrivano qui da soli e mi assicuro che abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno, a partire dal trovare loro un alloggio, far da referente per i genitori e tante altre cose. 

Da dove sei partita? Come sei arrivata a fare quello che fai?

Ho studiato design e comunicazione alla facoltà di architettura di Aversa. Dopo il mio trasferimento a Roma, ho iniziato a studiare fotografia e ho trovato anche lavoro. Sono sempre stata una persona molto timida e introversa e il contesto in cui sono cresciuta non era dei migliori, di sicuro non facile, quindi ho cercato un modo per esprimermi, per permettere a qualcosa dentro di me di uscire. L’ho fatto attraverso la fotografia iniziando ad usare la polaroid di mia madre. Il fatto di vedere la fotografia subito mi faceva impazzire. Questo è stato il mio veicolo, il mio modo di comunicare, anche solo per documentare ciò che facevo e vivevo, lo faccio ancora adesso, è una passione viscerale che non mi hai abbandonato. Ho anche provato a farlo diventare un lavoro, ma il fatto che la mia passione dovesse sottostare a un cliente/committente mi faceva stare male.

Un concetto con cui non vado d’accordo è che spesso si pensa che il lavoro che fai ti rappresenti in tutto e per tutto, ma non è così. Il lavoro che fai non sempre esprime te nella tua completezza; si crede che una persona che ha delle passioni per forza debba ricoprire un certo tipo ruolo, come se un banchiere non possa essere anche appassionato di sneakers.

Che cosa fai al di fuori del lavoro, come trascorri il tuo tempo?

Una cosa che mi ha sempre accompagnato nella vita è l’arte, qualsiasi forma d’arte, sono sempre stata attirata da un certo gusto estetico, attirata dalla bellezza non intesa come canone, ma dalla ricerca della bellezza in ogni tipo di espressione. Mi piace molto guardare film e andare alle mostre, lo faccio per me stessa, ho bisogno di riempirmi di questo. Una cosa che ho smesso di fare per via della pandemia è stato viaggiare, per me viaggiare è fondamentale, è stato davvero pesante.

Che rapporto hai con lo streetwear, le sneakers, sei una collezionista?

Ha sempre fatto parte del mio modo di vestire indossare sneakers. I miei genitori sono proprietari di una palestra, quindi per me era normale avere scarpe sportive, ho sempre portato capelli corti, non mi sono mai vestita da “principessa” e questo mi ha abituato a guardare l’abbigliamento come ad un qualcosa genderless, quando scelgo un capo non mi chiedo se è da uomo o da donna, acquisto ciò che mi piace e mi fa stare bene. Cavalco l’onda del gender fluid da quando sono nata. Mio padre è uno sportivo, sono appassionata di basket, ho sognato con giganti come Michael Jordan, Dennis Rodman, Kobe Brian e Allen Iverson. Di certo non è consueto che una bambina conosca Kareem Abdul Jabbar e per questo ringrazio mio padre, da lui ho imparato l’amore per l’ atletica leggera, sono cresciuta con il mito del “figlio del vento” (Carl Lewis n.d.r.) che vinceva le olimpiadi, tutto questo mi ha aiutato a capire cosa mi piaceva. Mi piaceva vedere cosa indossassero gli atleti, quali brands, poi con il tempo ho iniziato a fare un lavoro di ricerca. Ecco, una cosa che faccio per me è ricercare, il perché è così, chi lo ha indossato, che storia ha dietro; ed è quello che ultimamente manca a molte persone che convogliano in questo mondo.

Quale scarpa o capo di abbigliamento ha segnato di più la tua storia?

Una cosa che metto molto spesso sono le camicie da uomo. Per le sneakers varia in base al periodo, ma devo dire che la Dunk è la scarpa che ho indossato di più in assoluto, se ripenso ai miei anni delle superiori avevo una marea di Dunk, che prendevo in negozio senza dovermi prendere a cazzotti con nessuno, ora sarebbe impossibile. L’esclusività, le raffle, le collabo, con i tempi che corrono, le questioni ambientali, mi portano a chiedermi: ne avevamo bisogno? Ecco, forse ho raggiunto la consapevolezza di quando acquisto un capo nuovo che mi fa chiedere se ne ho davvero bisogno o posso farne a meno. Spesso acquisto second hand, come un’ACG del 2009 acquistata da poco. Una cosa che vorrei non ci fosse, come nell’abbigliamento, è la differenziazione tra uomo e donna, voglio una scarpa che mi stia, che mi piaccia, che abbia dei colori normali e che non rientri per forza in dei canoni imposti da qualcun altro.

Come dicevi prima, ami il cinema, quali sono i film che ti hanno segnata?

Innanzi tutto, se dovessi dirti un genere che mi piace, non saprei risponderti perché mi piace tutto. Sono capace di guardare anche sei film a settimana. Tutti i film di Spike Lee a livello di costumi soprattutto, sono stati la bibbia nella mia adolescenza, proprio perché vedevo nei film le stesse cose che vedevo nello sport in tv. Non sono esterofila, ma mi attraeva molto quel modo di essere. Mi piaceva molto Hype Williams regista di tanti video musicali da Missy Elliott a Puff Daddy e Busta Rhymes etc. e del film Belly. Se dovessi dirti invece delle serie tv, ti direi i classici Soprano, Seinfeld, al momento sto guardando la seconda stagione di Euphoria, fotografia e colonne sonore pazzesche.

Quali sono secondo te i trend che hanno contraddistinto Roma e che hanno condizionato l’andamento della moda in questi anni?

Sono qui da 12 anni, ma devo dirti che la vita vera, quella non legata al lavoro, l’ho vissuta a Napoli. Sono cresciuta nella periferia est, quartiere San Giovanni a Teduccio, non propriamente il luogo dove tutti vorrebbero nascere. Napoli è un melting pot, trovi di tutto, qualsiasi tipo di persona, genere, razza. È vero che il luogo in cui cresci ti forma, sono cresciuta in un posto di un degrado assurdo, ma che mi ha dato tanto. Sono sempre stata tra persone che dipingevano graffiti, che ballavano, che seguivano la cultura hip-hop, che mi ha accompagnato per tutta la vita e lo fa ancora adesso. Credo che le periferie, proprio per caratteristica, si somiglino tutte, anche a livello strutturale architettonico: fatte di casermoni, di blocchi e di strade che hanno una sola via di entrata e una di uscita. Quindi anche il modo di vestire, ciò che si indossava e si indossa è uguale per tutti, che ci si trovi a Roma o Napoli, tutti abbiamo vissuto le “mode” della periferia. Fatta di tute, baggy jeans, Air Max varie e tee over. Ciò che indossavi identificava il tipo di persona, se indossavi le Hogan eri un tipo di persona, se avevi le Silver un altro, le Squalo e così via. Noto che ora è tutto più omogeneo, se come mi vestivo io negli anni ‘90 era considerato strano, ora è normale.