Sneakers - Settembre 13, 2021

Il Giappone ai piedi: La Sneaker Culture nel Sol Levante

Scopri come la terra del Sol Levante ha insegnato al mondo intero a guardare una scarpa con occhi diversi e ha cambiato per sempre la storia della moda internazionale.

Scopri come la terra del Sol Levante ha insegnato al mondo intero a guardare una scarpa con occhi diversi e ha cambiato per sempre la storia della moda internazionale.

gianluca zitelli

“Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano, indivisibili”. Lo cantava Antonello Venditti nel 1991, ormai più di qualche anno fa. Nonostante sia famoso per tutto tranne che per la sua collezione di sneaker, con poche parole ha inavvertitamente raccontato alla perfezione il rapporto tra la nostra passione più grande e il luogo che più al mondo la rappresenta: la sneaker culture e il Giappone, la terra del Sol Levante. Quella che era cominciata come una sfida, nell’arco di più di cinquant’anni si è evoluta fino a regalarci collaborazioni e grail per cui faremmo carte false pur di averli. Il Giappone è il paese che ha insegnato agli appassionati di tutto il mondo come preservare e trasmettere la cultura di quelle che per altri sono scarpe ma per noi sono arte.

ANNI ‘60: GLI INIZI E IL CASO “CORTEZ”

Mentre in America le scarpe sportive già spopolavano dagli anni ‘30 grazie alle Chuck Taylor All-Star, in Giappone i primi esempi si vedono nei primi anni ‘50 grazie ad Onitsuka Tiger, che oggi conosciamo anche con il nome di ASICS. Forti di un’elevata qualità e di una comodità senza pari non ci volle molto prima che i local cominciassero a gravitare verso quei tipi di silhouette da running e da basket che facevano impazzire il pubblico oltreoceano. 

Onitsuka Tiger Blue Ribbon ad. Immagine Sneakerjager

Nel 1969, in occasione dei Giochi Olimpici in Messico, Onitsuka Tiger presentò una nuova silhouette da running, destinata a diventare uno standard tra i professionisti. La mente dietro a questa scarpa era Bill Bowerman, veterano della corsa, allenatore e fondatore della Blue Ribbon Sports insieme al suo socio Phil Knight. L’azienda nacque dopo che Phil Knight ebbe la possibilità di lavorare con Mr. Onitsuka, i quali trovarono un accordo per importare sul suolo americano tutti quei modelli di Tiger che ormai facevano impazzire la terra del Sol Levante. Esattamente quello che successe all’idea di Bowerman, che prese le parti migliori delle scarpe da running di Tiger e le fuse insieme, creando quella che avrebbe dovuto chiamarsi Aztec in onore del luogo in cui si svolgevano i Giochi. Adidas purtroppo gli rovinò la festa rilasciando un modello chiamato Azteca Gold e per evitare di incorrere in azioni legali Bowerman decise di chiamarla Cortez, nome ispirato al condottiero Hernan Cortés che conquistò gli Aztechi nei primi del ‘500. La Cortez distrusse la concorrenza ai Giochi Olimpici rivelandosi l’equilibrio perfetto tra peso e comodità grazie all’ammortizzazione lungo tutto il footbed, contribuendo al mito di quella che è ancora oggi un grande classico della sneaker culture e del mondo del running.

forrest gump nike cortez

Nike Cortez in Forrest Gump. Immagine Sneakernews

Non molto tempo dopo per questioni economiche il rapporto tra Onitsuka e Blue Ribbon si deteriorò e concluse. Quello che i giapponesi non sapevano però è che Bowerman e Knight stavano producendo di nascosto una propria linea di sneakers chiamata Nike, e una di quelle sneaker era proprio la Cortez. La scoperta fu totalmente casuale: come racconta Julie Strasser nel suo libro “Swoosh” fu proprio un responsabile Onitsuka a scoprirne diverse paia nascoste durante una visita al quartier generale di Blue Ribbon a Los Angeles. La vicenda ovviamente si concluse in tribunale, il quale stabilì che entrambi potevano continuare a produrla e venderla e che Nike si sarebbe tenuta il nome, obbligando Tiger a variare il nome in Corsair. Amici amici, e poi ti rubano le scarpe.

ANNI ‘90: HARAJUKU, NEON E LE FUTURE PROMESSE

Nei decenni successivi alla vicenda Cortez brand come Nike, Adidas, ASICS e Puma continuarono a rafforzare la loro figura di top player all’interno del mercato delle scarpe sportive. Gli anni ‘90 furono il momento fondamentale in cui il Giappone, e più nello specifico Tokyo, iniziò il processo di trasformazione che lo ha portato a diventare la Mecca dello streetwear e delle sneakers. Un gigantesco contenitore di idee, innovazioni e avvenimenti tali da renderlo senza ombra di dubbio il decennio più importante in assoluto a livello fashion. Nonostante negli anni precedenti si fossero già affermate case di moda come Comme Des Garçons, questi anni plasmarono in tutto e per tutto il futuro della moda e il significato stesso della parola. Si potrebbero nominare decine e decine di brand a prova di tutto questo ma l’esempio perfetto si chiama Nowhere.

nigo jun takahashi

Immagine Hypebeast

Gli anni ‘90 in Giappone furono periodo di grandi infiltrazioni culturali: i giovani entrarono in contatto con sottoculture come skate, punk e hip-hop e brand streetwear americani come Supreme e Stussy si affermavano oltreoceano e si ponevano al comando di queste. 

Harajuku, una zona di Tokyo, fece da incubatore a quei giovani designer che sarebbero poi diventati i leader dello streetwear giapponese. Fu il luogo scelto da Nigo e Jun Takahashi per aprire Nowhere, la culla dello streetwear giapponese. Conosciutisi mentre studiavano moda e legati da altre passioni come la musica decisero di aprire un negozio e dividerlo in due metà in cui esporre ognuno i propri prodotti: in quell’occasione Takahashi lanciò UNDERCOVER, dai forti tratti neo-punk, mentre Nigo mise in mostra una selezione di prodotti d’importazione americana. Forte della sua esperienza come assistente di Hiroshi Fujiwara e delle connessioni con Stussy, Nigo decise di lanciare A Bathing Ape, dopo essere stato testimone del grande successo che stava riscontrando UNDERCOVER all’interno del negozio. In realtà tutto questo non fu altro che una semplice scintilla: molto presto il negozio iniziò ad ospitare altri brand emergenti come FPAR e veder aprire altri negozi come Neighborhood, a loro volta figli di sottoculture come l’heavy metal e le motociclette americane. Contemporaneamente a questi movimenti underground nasceva il mito di Michael Jordan, che con le sue sneakers faceva impazzire gli appassionati di basket e non del Sol Levante.

Il culmine degli eventi si raggiunse però con l’uscita dell’Air Max 95 nella leggendaria colorazione “Neon”, l’interruttore che accese la fame dello Swoosh e dei collezionisti. Fu a tutti gli effetti uno dei primi casi documentati di reselling, con persone disposte a spendere fino a 3000 dollari per un paio di 95. Anche Nike fu presa in contropiede. Durante l’anno del lancio ebbe un successo niente più che discreto, mentre l’anno successivo grazie alla spinta di celebrità e volti dello sport che le indossavano, gli appassionati impazzirono fino a mettere in atto veri e propri furti pur di averle. E per sottolineare quanto la cultura sia circolare in Giappone, la Neon comparse anche all’interno di un capitolo del manga di Yu-Gi-Oh!.

Immagine Sabukaru

Presto la fame di sneakers si diffuse all’intero mondo Air Max e Jordan, ma non solo: anche altri brand come New Balance, Reebok e Converse approfittarono di questo boom. New Balance in particolare fu tra i primi a trasferire una parte della produzione in Giappone, dando il via ai primi modelli Japan-exclusive in assoluto per poter accontentare al meglio i gusti dei nipponici in fatto di colori e materiali. La più famosa di tutte? La MT580. Reebok conquistò il pubblico con la Instapump Fury, grande classico che strizzava l’occhio al futuro e alla tecnologia; il resto del pubblico invece permise a Converse di affermarsi con la sua One Star, la versatilità per eccellenza. 

ANNI 2000 AD OGGI: RETAIL, CO.JP E COLLABORAZIONI

L’arrivo del nuovo millennio è il sinonimo perfetto del cosiddetto “Butterfly Effect”. Per chi non fosse familiare con il termine, stiamo parlando di quella teoria per cui quelle piccole variazioni di cui non hai tenuto conto finiscono per creare delle grandi rivoluzioni col passare del tempo. Gli anni 2000 rappresentano il momento in cui il Giappone finisce al centro della cartina di chi a colazione mangia pane e sneakers. Una catena evolutiva che non puoi fermare: i retailer aprono, le esclusive giapponesi si moltiplicano e i vicini di negozio finiscono per fare delle collaborazioni.

atmos co.jp museum

atmos shop. Immagine Retail in Asia

Cominciano a nascere i primi sneaker store, ognuno con identità ben precise. Store come Mita e atmos si presentano in veste di sneaker boutique, spaziando dai grandi classici alle ultime mode ed esclusive. Altri store come WORM TOKYO aprono con l’intenzione di  raccogliere, documentare e collezionare interi capitoli della storia delle sneaker mondiale, compresi i vostri grail. Molto presto questi retailer diventano i responsabili di almeno la metà del traffico pedestre della zona, dai local in cerca di un nuovo bolide da mettersi ai piedi a persone arrivate da oltremare per un vero e proprio pellegrinaggio. In questo esatto momento le parti si invertono: quarant’anni prima Onitsuka Tiger faceva carte false per portare le sneaker giapponesi in quell’America in cui spopolavano le scarpe sportive, ora invece il mondo viene in Giappone per comprare le sue esclusive e respirare a pieni polmoni cosa significa amare una sneaker. E poi la ciliegina sulla torta: quella Nike che iniziò il suo percorso grazie alla Cortez di Onitsuka Tiger dà vita a CO.JP. Tornato in auge con la Dunk e la Jordan 1 rilasciate l’anno scorso, CO.JP era un programma di release Japan-exclusive disponibili solo nella terra del Sol Levante. Nessuna notizia, nessuna comunicazione: l’unico modo di saperlo era avere contatti oltreoceano, tramite passaparola o trovarle sullo scaffale di uno store ad Harajuku.

atmos co.jp museum. Immagine Hypebeast

Il clima di fervore ed esclusività culminò con l’Air Max 1 “Safari” del 2002 in collaborazione con atmos che è comunemente considerata come il punto da cui è partito tutto, quella senza cui molto probabilmente Travis Scott non avrebbe una sua Jordan e Bape non avrebbe una sua Superstar. Le collaborazioni sono sempre state estremamente significative in Giappone e lo possiamo riscontrare ancora oggi, infatti la maggior parte delle collaborazioni degli ultimi anni nascono insieme a brand giapponesi come Sacai, UNDERCOVER, Comme Des Garçons, WTAPS e Fragment.

Un litigio vecchio quasi sessant’anni che si trasforma in amore incondizionato è l’ingrediente principale di quella ricetta che oggi conosciamo come sneaker culture. Quella che ci fa sbavare davanti a una vetrina per un paio appena uscito, che ci fa girare all’improvviso per guardare i piedi di uno sconosciuto, quella che ci fa attraversare un oceano per vedere una scatola rovinata e una scarpa distrutta dal tempo che passa, che per l’emozione che provoca ci fa uscire dall’anima un grazie. Anzi, arigato.